Progetto Trekking “Sentiero della primula Palinuri” – Istituto Superiore Carlo Pisacane di Sapri

Nell’ambito di una progettazione di percorsi trekking – culturali, destinata agli alunni dell’istituto superiore Carlo Pisacane di Sapri, rientra l’uscita didattica…destinazione Palinuro.

 

 

Lui è Giovanni Cammarano. Sarà una delle due guide che ci accompagneranno in questo percorso: Trekking – Sentiero della primula.

Anche questa volta mi ritrovo a documentare… ed è per questo che intervisto il Presidente Cammarano…

Prima di iniziare il percorso una visita all’antiquarium…

L’antiquarium è posto su uno strapiombo costiero a ridosso di una suggestiva cala in località Ficocella. L’edificio fu realizzato negli anni ’60 grazie all’interesse dell’Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, al fine di dare una collocazione alla miriade di reperti archeologici rinvenuti per un succedersi di scavi a partire dal 1948.

L’antiquarium raccoglie suppellettili di ossidiana risalenti a 6000 anni fa circa, i resti di un antico insediamento preistorico individuato nel 1983, i corredi della necropoli di età arcaica che hanno restituito ceramica di tradizione ionica, ceramica attica a figure nere e ceramica di produzione locale tipica del Vallo di Diano con decorazione geometrica, adoperata, oltre che per contenere acqua o derrate alimentari, anche come cinerari dei defunti sottoposti a cremazione. Sono inoltre esposti i ritrovamenti di numerosi relitti di età ellenistica affondati nel mare di Palinuro.

Dopo aver visitato l’antiquarium ci avviamo verso la nostra destinazione…zona porto.

….ed ecco la Primula Palinuri Petagna.

La primula di Palinuro (Primula palinuri) è una piccola pianta endemica di alcuni tratti del Tirreno meridionale. Rarissima e a rischio d’estinzione, è il simbolo del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, in Campania, in cui è più facile incontrarla.
Considerata un paleoendemismo, cioè una specie endemica relitta, risalente almeno al quaternario antico, circa due milioni e mezzo di anni fa, la primula di Palinuro è probabilmente l’unica superstite di una famiglia di primule, originariamente diffuse sulle montagne dell’Italia meridionale, oggi l’unica primula che cresce in ambiente non montano.
Molto rara e a rischio di estinzione, questa pianticella cresce in piccole colonie abbarbicate lungo le falesie calcaree, preferibilmente esposte a nord e a nordovest, più fresche, sull’orlo delle cenge e nelle fenditure delle rocce, dei litorali della Basilicata, della Calabria e della Campania meridionale. In particolare, la si ritrova da Capo Palinuri alla Costa degli Infreschi, a Scalea, sull’Isola di Dino e Praia a Mare, a Punta Caina, e nel Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, ma la sua diffusione è ridotta e frammentaria.
Pianticella molto rara e a rischio di estinzione, è protetta a livello regionale e comunitario, inserita nella lista rossa compita dall’Iucn, l’Unione mondiale per la conservazione della natura. Caratterizzata da un robusto rizoma, una folta rosetta di foglie un poco carnose, fiorisce in febbraio e marzo: i fiori, giallo dorati, con calice lungo, bianco, penduli, sono riuniti in un’infiorescenza sorretta da uno stelo robusto, alto una ventina di centimetri. Riuscire a vederla, è una gran bella soddisfazione, ovviamente senza raccoglierla.

Mentre i ragazzi sono intenti a fotografare la primula e gli ambienti …mi soffermo ad intervistare Cammarano, per meglio evidenziare questa specie…simbolo del nostro parco.

 

A questo punto iniziamo il percorso trekking vero e proprio. E’ un sentiero lungo circa cinque chilometri, ad anello, facile da percorrere, con un dislivello di +0 – 130 metri, percorribile in due ore e mezza. Inizia dal porto di Palinuro e conduce alla sommità del Capo ove sono situati il Faro e la stazione meteorologica. E’ un sentiero che fa godere di paesaggi marini suggestivi e maestosi. Si possono vedere torri  che furono costruite in epoca aragonese per la difesa costiera dall’azione dei pirati saraceni e ancora oggi punteggiano le rocce strapiombanti nel mare blu. Più recenti le fortificazioni di Punta del Fortino e di Monte d’Oro (epoca napoleonica). Infine si scende verso il porto di Palinuro mediante un agevole sentiero immerso nella pineta.

 

La prima tappa punta del fortino francese…

Tante le specie vegetali lungo il percorso…

Attenta osservatrice…pronta allo scatto giusto… a cogliere l’attimo: Roberta del Medico – autrice di gran parte delle foto di questo articolo, che sentitamente ringrazio.

 

Ed eccoci al fortino di Monte D’oro…risalente ai primi dell’ottocento.

 

Sulla strada del ritorno ci siamo fermati ad ammirare lo scoglio del coniglio.

 

Nel Mito, l’episodio relativo a Palinuro viene descritto alla fine del Libro V dell‘ Eneide, nel quale Virgilio individua il punto preciso della vicenda: uno scoglio, riconducibile al tratto di costa campano del  mar Tirreno, dinanzi all’omonimo capo, tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta, nella subregione attualmente chiamataCilento.

Naufrago dopo aver invocato invano i propri compagni, rimane per tre giorni in balia del Noto (vento) fino all’approdo sulle spiagge d’Italia, dove troverà ad attenderlo non la salvezza ma una fine crudele: catturato dalla gente indigena, viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare scambiandolo per un mostro marino.

Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, dio del mare, che nel momento stesso in cui accordava a Venere il proprio aiuto per condurre in salvo la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé in cambio una vittima:

« Unum pro multis dabitur caput.
Una sola vittima per la salvezza di molti »

(Eneide, V, 815)

Palinuro, nel successivo Libro VI, vagando tra le anime degli insepolti, sarà protagonista di un triste incontro con Enea, disceso nel regno di Ade in compagnia della Sibilla Cumana.
In quell’occasione supplicherà il suo condottiero di dargli sepoltura, esortandolo a cercare il suo corpo tra i flutti degli approdi velini (Elea-Velia).

« Aut tu mihi terram inice, namque potes, portusque require Velinos. »

(Eneide, VI, 365)

Sarà la Sibilla a dovergli rivelare che il suo cadavere non verrà mai ritrovato: la sacerdotessa tuttavia mitiga l’amarezza del nocchiero predicendogli che, perseguitati da eventi prodigiosi, i suoi assassini erigeranno un cenotafio da dedicare a lui e da onorare con offerte. Quel luogo avrebbe per sempre portato il nome Palinuro.

Ma lasciando il Mito…ci avviamo sulla strada del ritorno.

Con la stima di sempre.

Angelo Risi

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Progetto Trekking “La grava del Vesalo” alunni I.S. Carlo Pisacane di Sapri

 Il significato di trekking deve essere ricercato nel verbo inglese to trek, che significa fare un viaggio lungo, camminando piano. Un mix tra camminata in mezzo alla natura ed escursionismo.

La F.I.E. (Federazione Italiana Escursionisti) collega tra loro gruppi, associazioni e club in tutta Italia. Promuove l’escursionismo e le attività a contatto con la natura. Organizza corsi di formazione per accompagnatori escursionistici nazionali. Tramite le associazioni ad essa affiliate interviene nelle scuole ed accompagna nelle escursioni i diversamente abili. Organizza giornate nel nome dell’escursionismo. E’ la rappresentante italiana della Federazione Europea Escursionismo F.E.E. con il mandato di progettare, segnalare e mantenere in ordine i Sentieri Europei che attraversano l’Italia nelle varie direzioni. Essendo io, formato e tesserato, ho accolto prontamente la possibilità di accompagnare gli alunni del Pisacane in questa avventura organizzata in collaborazione con:https://www.facebook.com/groups/132863133536890/

 

E’ stata quasi d’obbligo una prima tappa a Rofrano, laddove nasce il fiume Faraone, che alimenta l’intera vallata del Mingardo. Abbiamo percorso l’itinerario naturalistico alla volta delle Fistole del Faraone, sotto la guida degli esperti escursionisti dell’Associazione: Carlo e Pasquale .  Le Fistole del Faraone sono alle pendici del monte Raia del Pedale ” 1521 metri “, da queste si forma il fiume che a valle assume il nome di Mingardo. Ha una portata media complessiva di circa 580 – 600 litri al secondo.

 

Una natura incontaminata…laddove fuoriesce l’acqua…elemento fondamentale per la vita dell’intero ecosistema. Uno spettacolo unico…che ha interessato i ragazzi.

 

Lasciato Rofrano ci siamo avventurati nel percorso trekking ” La grava del Vesalo“. Di grande interesse speleologico e scientifico è uno dei fenomeni carsici più famosi agli speleologi europei. Il più grande inghiottitoio nel complesso appenninico Alburni-Cervati. Il percorso è un sentiero lungo quattro chilometri, con un dislivello di salita di centocinquanta metri, percorribile in circa due ore e con una difficoltà bassa.

 

Ancora spoglio il bosco, mentre  i fiori con la loro effimera delicatezza e i  colori sono il controcanto ideale per gli alberi, imponenti e statici . È anche l’equilibrio fra queste forme complementari a rendere il bosco de “la grava del Vesalo” un ambiente magico. I fiori, sono immensamente più piccoli degli alberi ma essendo numerosissimi e molto variopinti, insieme ai raggi di sole che filtrano, illuminano e ravvivano il sottobosco. Spesso passano inosservati perché si tende a camminare tenendo la testa alta per ammirare gli alberi ma basta gettare uno sguardo in basso, ai lati del sentiero o oltre, fra le rocce ed i tronchi degli alberi o lungo i fossetti dove scorre l’acqua o negli avvallamenti del terreno ed allora si è catturati dai loro colori. ed ecco il “bucaneve“…

 

Il bucaneve (Galanthus nivalis, catalogato da Linnaeus 1753) è una pianta perenne, erbacea ed eretta, della famiglia  delle Amarillidaceae. Il nome del genere “Galanthus”deriva da due parole greche: “gala”  (bianco come il latte) e “anthos” (fiore). Il nome specifico “nivalis” fa riferimento alla sua precoce fioritura in mezzo alla neve. I riferimenti storici al Bucaneve si perdono nella “notte dei tempi”. Viene chiamato “Stella del mattino” perché è uno dei primi fiori ad apparire nel nuovo anno. Anche le feste religiose (sia cristiane che pagane) fanno riferimento a questo fiore: è una pianta sacra e simbolica per la festa della Candelora (2 febbraio); invece in Imbolc (antica festa irlandese del culmine dell’inverno – 1º febbraio) si dice che il colore bianco del bucaneve ricorda allo stesso tempo la purezza di una Giovane Dea (festeggiata in questa ricorrenza pagana) e il latte che nutre gli agnelli.

 

Tra le foglie secche fanno capolino i “crocus” (comunemente detto croco), un genere di piante spermatofite monocotiledoni appartenenti alla famiglia delle Iridaceae. Sono piante erbacee perenni con foglie lineari e  fiori a forma di coppa, di colore violaceo, giallo, bianco, a cui appartiene la specie comunemente detta zafferano (con gli stigmi rossi). Il nome del genere (Crocus) deriva dal greco Kròkos (c’è un esplicito riferimento a questo fiore nell ‘Iliade di Omero – Libro XIV, versetto 347) che significa “filo di tessuto” e si riferisce ai lunghi stigmi  ben visibili nella specie più conosciuta (e coltivata) di questo genere (Crocus sativus). La prima documentazione dell’uso di questo nome lo abbiamo da Teofrasto di Efeso (Efeso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), filosofo e botanico greco antico nonché discepolo di Aristotele. 

La conoscenza di questi fiori va molto indietro nel tempo. Ciò è dimostrato dal fatto che persino la Bibbia nel Libro dei Cantici  (4:14) vengono citati come piante aromatiche e odorose. Nell’antica Grecia si usavano per farne corone oppure si spargevano nei teatri o nei letti nuziali. Mentre nell’antica Roma si usava ornare le tombe con questo fiore come auspicio per una vita ultraterrena. Varie sono le leggende attorno al fiore del “Croco”. In una di queste Croco era un giovane innamorato della pastorella Smilliace che venne trasformato in detto fiore ad opera di Venere o in un’altra versione venne trasformato in fiore dal dio Ermes geloso della pastorella. In un’altra si racconta che Croco morì giocando con Mercurio  e che dal suo sangue nacque il fiore. In un’altra ancora si racconta che il fiore del croco germogliasse nel momento in cui Paride dava il suo giudizio  sulla più bella fra le dee.

 

Camminando lungo il percorso Trekking siamo tutti intenti a scoprire qualche altro fiore…ed ecco che quasi d’incanto appare ai nostri occhi la “Scilla italica“, con foglie allungate e strette, di un bel verde chiaro, e  fiori con sei tepali azzurri uniti alla base. I fiori sono raccolti in un racemo dalla forma piramidale.

Ed ecco che siamo giunti all’inizio del percorco che conduce alla tappa finale del nostro viaggio: l’inghiottitoio.

 

E’ una zona ricca di acqua, come d’altronde tutta l’area già visitata. Tanti sono gli “abbeveratoi” per gli animali che troviamo lungo il cammino.

Un pallone lasciato a testimoniare il passaggio di ragazzi che spesso, particolarmente d’estate, fanno in questi boschi attività ricreative. Segno di una civiltà discutibile…per quanto i luoghi versano in uno stato di “cura“, non mancano segnali di abbandono di rifiuti.

Lungo il cammino si è potuto osservare la Primula comune (nome scientifico Primula vulgaris, catalogata da Huds 1762). E’ una pianta della famiglia delle Primulacee, che nasce spontaneamente nel sottobosco e fiorisce agli inizi della primavera. Nella letteratura scientifica uno dei primi botanici a usare il nome di “Primula” per questi fiori fu P.A. Matthioli (1500 – 1577), medico e botanico di Siena, famoso fra l’altro per avere fatto degli studi su Dioscoride, e per aver scritto una delle prime opere botaniche moderne. Dioscoride Pedanio (in greco: Πεδάνιος Διοσκουρίδης, Pedànios Dioskourìdes)  è stato un medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell’imperatore Nerone.

I ragazzi sono letteralmente “rapiti” dalla nostra guida…intenta a raccontare del luogo …

Non mancano i “controlli” di noi accompagnatori, a verificare se il gruppo è tutto presente.

Ed ecco qualche “ranuncolo“…una pianta erbacea delle ranuncolacee ( Ranunculus acer ), velenosa, comune nei prati, con foglie palmatopartite, fiori terminali gialli e frutti ad achenio con becco ricurvo. Il nome generico (Ranunculus), passando per il latino, deriva dal greco  (batrachion), e significa rana (è Plinio scrittore e naturalista latino, che c’informa di questa etimologia) in quanto molte specie  di questo genere prediligono le zone umide, ombrose e paludose, habitat naturale degli anfibi. La denominazione scientifica attualmente accettata è stata proposto da Carl Von Linnè  (1707–1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione “Species Plantarum” del 1753. I ranuncoli sono fiori semplici ma eleganti provenienti dall’Asia. La conoscenza di queste piante è molto antica. I turchi le chiamavano “fiori doppi di Tripoli”; mentre lo scrittore e filosofo romano Apuleio  (125 – 170) le nominava come “erba scellerata” a causa della loro tossicità. Così con queste informazioni il botanico italiano Paolo Bartolomeo Clarici (1664 – 1725) introduce la descrizione del ranuncolo in un suo scritto.

Aspettando i ragazzi mi salta all’occhio la presenza del “pungitopo“… è un basso arbusto sempreverde con tipiche bacche rosse impiegate come ornamento natalizio.

 Il Pungitopo è un piccolo arbusto sempreverde appartenente alle Liliacee.  Possiede rizoma sotterraneo e fusto molto ramificato e tenace, striato longitudinalmente. I getti sono cilindrici, succosi, rossastri, con all’apice un gruppetto di brattee verdognole. Le foglie sono sostituite da numerosi cladodi sessili, appiattiti, ovato­lanceolati, terminanti in un mucrone pungente. I fiori sono piccoli, verdastri, isolati o a coppie, inseriti al centro dei cladodi all’ascella di una piccola brattea, fiorisce in inverno nei paesi a clima caldo e altrove da febbraio ad aprile. Il frutto è una piccola bacca globosa di 10-­15 mm di diametro, di colore rosso vivo, che matura nell’inverno successivo alla fioritura.

Tante le primule lungo il cammino…

Dopo aver camminato senza alcuna fatica e dopo aver seguito il corso dell’acqua (che dalla sorgente “fistole” arriva all’inghiottitoio per continuare il suo naturale percorso verso le viscere della terra o del mare…) eccoci giunti a destinazione.

Di grande interesse speleologico e scientifico è la grava del Vesalo, uno dei fenomeni carsici più famosi agli speleologi d’Europa. Rappresenta il più grande inghiottitoio nel complesso appenninico Alburni-Cervati. Un inghiottitoio è una cavità, generalmente a forma di imbuto, che si forma a causa del processo di scioglimento delle rocce carbonatiche (come i calcari, le dolomie, i marmi) rese solubili da una reazione tra acido carbonico (anidride carbonica in soluzione acquosa) e il carbonato di calcio di cui le rocce sono composte. L’erosione può assumere forme diverse: superficiale, come avviene per i campi solcati o nelle doline, o più profonda e sotterranea, come nel caso degli inghiottitoi. L’ampia voragine, costituita da un doppio pozzo di 43 e 100 metri al cui fondo si apre una caverna a galleria, nella quale si riversano le acque del torrente Silenzio in piena, è costituita da un susseguirsi di pozzi, cascate e laghetti, definiti cavernose Blanc, Lago Laurino, galleria delle marmitte, Galleria Luberns, Sala La Bruna, Sala del camino, Antro degli Opilionidi, Discesa Durante. La maggior parte di queste caverne sono visitabili solo dagli speleologi.

 

La notevole umidità e la particolarità del suolo hanno consentito lo svilupparsi di particolari forme di flora e fauna.

Un esempio è la salamandra pezzata. Facilmente riconoscibile per la sua colorazione nera con vistose macchie gialle. Raggiunge i 15–20 cm di lunghezza totale (coda compresa), e le femmine sono in generale più lunghe e grosse dei maschi. La pelle, liscia e lucente, è cosparsa di piccole ghiandole secernenti il muco che ricopre l’animale; il muco ha una funzione battericida (protegge la pelle dalle infezioni), riduce la disidratazione e ha un gusto repellente per gli eventuali predatori. Le tinte vivaci della pelle segnalano appunto che la salamandra non è commestibile: queste colorazioni appariscenti sono dette “colorazioni di avvertimento” (funzione aposematica). La salamandra frequenta ambienti boscati freschi e umidi (in particolare quelli di latifoglie) attraversati da piccoli corsi d’acqua, spesso fondamentali per la riproduzione. Anche la struttura e le caratteristiche dei corsi d’acqua nei quali avviene la deposizione delle larve giocano infatti un ruolo molto importante nel determinare la distribuzione della specie. Corsi d’acqua poco profondi, dall’andamento naturale, con ricchezza di rifugi e substrato ben diversificato hanno maggiori probabilità di ospitare questo urodelo.

Anche la qualità dell’acqua è importante. La salamandra depone infatti solitamente in torrenti poco o per nulla inquinati con ampia disponibilità di macroinvertebrati (crostacei, larve di insetto ecc.) di cui le larve si nutrono. In alcuni casi la salamandra utilizza per la deposizione anche lavatoi, vasche e piccoli stagni alimentati da sorgenti che garantiscono un livello di ossigenazione adeguato. Inoltre la salamandra (essendo notturna) esce la sera, o di giorno se ci sono piogge molto forti.

Salta agli occhi la Cardamine kitaibelii, nome volgare: Dentaria di Kitaibel (famiglia delle Cruciferae). Si può confondere con C. enneaphyllos e C. heptaphylla.

La dentaria di Kitaibel è una specie delle montagne dell’Europa meridionale presente in tutte le regioni dell’Italia continentale, salvo che in quelle del nord-est e in Puglia (la presenza in Valle d’Aosta è dubbia). Cresce in faggete umide, spesso nelle forre e in aree con forte piovosità, su terreni piuttosto freschi e ricchi in sostanza organica, tra 400 e 1600 m circa. Il nome generico deriva dal termine greco ‘kárdamon’ che designava il crescione (Nasturtium officinale), molto simile alle Cardamine con foglie pennate; la specie è dedicata al botanico ungherese P. Kitaibel (1757-1817). Forma biologica: geofita rizomatosa. Periodo di fioritura: aprile-luglio.

Siamo alla conclusione del percorso trekking. I ragazzi continuano a fare domande sul luogo, e Carlo la nostra guida parla del brigante Tardio e della leggenda che vuole che trovò la morte nell’inghiottitoio. Il brigante – partigiano del Cilento Giuseppe Maria Tardio nacque a Piaggine Soprane nel Principato Citra il 1° ottobre 1834 da Paolo e Catarina Alliegro di Rofrano. Ma questa è altra storia che va approfondita …magari un’altra volta.

E così… ci avviamo sulla via del ritorno a scuola.

Ho cercato di raccontarvi quanto da noi vissuto. Mi auguro di aver trasferito delle nozioni e delle emozioni.

Un abbraccio con la stima di sempre.

Angelo RISI

 

 

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” Il cammino della fede” – Uscite didattiche alunni Istituto agrario di Sapri – Santuario San Biagio – Maratea

“Il cammino della fede” prevede quattro itinerari da percorrere con gli alunni dell’istituto agrario di Sapri. Sono tre le discipline scolastiche: scienze motorie, scienze religiose e scienze ambientali che vedono impegnati i relativi docenti nell’illustrare i percorsi e accompagnare gli alunni verso la conoscenza del territorio, del camminare quale stile di vita sano e mettersi in contatto con la propria sensibilità e religiosità.

Il primo itinerario è il santuario di San Biagio a Maratea…

E’ una bellissima giornata di sole. Lungo il percorso lo scenario che si prospetta ai nostri occhi è a dir poco meraviglioso…lascio “parlare” le immagini.

Ed ecco che sulla sommità del monte San Biagio si intravede il Cristo.

I ragazzi sono tutti entusiasti. Per alcuni di loro è la prima volta che vedono il Cristo di Maratea.

Giunti all’inizio del percorso trekking, una prima colazione per avere le giuste energie per affrontare la salita.

Quasi in religioso silenzio…ascoltando la storia di San Biagio.

Non potevamo non notare i resti degli incendi della scorsa estate. Il sottobosco in alcuni punti stenta a rigenerarsi. E’ stata l’occasione per una riflessione di educazione ambientale.

Alla prima sosta, una foto di gruppo.

Lungo il percorso, tanti i fiori, tante le specie…tante le domande da parte degli alunni. Una lezione di botanica in pieno campo.

Colori e odori tipici della macchia mediterranea e del sottobosco.

Un panomara da mozzafiato…

…è come perdersi nell’immensità del mare.

I ragazzi per nulla stanchi tutto hanno osservato…qualcuno ha raccolto finanche i primi asparagi.

 

Ci hanno raggiunto alcuni alunni di Maratea con i loro cavalli.

Come un pellegrinaggio… in alcuni momenti il silenzio ha regnato  lungo la salita. La voglia di arrivare in cima…

 

Ed ecco il Santuario di San Biagio…

 

È il cuore religioso della comunità cristiana locale e custode delle reliquie del Patrono San Biagio.

Si trova fabbricato nel punto più alto della città vecchia di Maratea, detta Castello, e ne è la chiesa parrocchiale. Tradizione vuole sia sorta sul sito di un tempio pagano dedicato a Minerva. Nel millenoventoquaranta è stata elevata alla dignità di basilica minore.

Ed ecco il Cristo… è una colossale scultura posta sulla cima del monte San Biagio, sovrastante Maratea. Fu realizzata con un particolare impasto di cemento misto a scaglie di marmo di Carrara dall’artista fiorentino Bruno Innocenti tra il millenovecentosessantatre e il millenovecentosessantacinque. È alta ventuno metri e tredici centimetri. Secondo una testimonianza lasciata scritta da Bruno Innocenti la statua «vuole significare la rinascita, la speranza nuova indicataci dal Cristo Risorto. Il punto d’incontro delle nostre aspirazioni migliori e lui, divinamente ritornante, spaziante nei cieli e in cammino, sempre, verso di noi. Il Redentore, con il largo gesto al cielo e con lo sguardo fisso ai fedeli, presenti nell’ignoto momento della loro esistenza, è legato al Padre Celeste nella benedizione che sta per essere impartita, mentre ancora una volta poggia il piede su questa terra che fu spettatrice della sua crocifissione. Ma in virtù della sua infinita capacità di perdono, niente traspare della tragedia vissuta. Ora è serenità, speranza, perdono luminoso e confortante a venirci incontro: un Gesù giovane, senza tempo, mondo da ogni effimera apparenza terrena. Divinamente nuovo come il simbolo incarnato della seconda parte della Santissima Trinità, l’Umano e il Divino non più contaminati dall’uomo.» Fermo su questo concetto, lo scultore sentì il bisogno «che l’opera nascente in un clima di sintesi, semplice ed espressiva, e che non vi fossero compiacenze a dettagli formali intesi a richiamare alla mente immagini di culto convenzionali.» Innocenti scrisse di volere che il simbolismo dell’opera fosse «il più possibile contenuto ed essenziale, perché, nelle dimensioni della statua, ritengo sarebbero stati controproducenti atteggiamenti e dettagli che avessero richiamato una realtà spicciola, contingente, minutamente reale. La statua sorgerà candida sulla cima del Monte S. Biagio, imponente, ma discreta; non un urlo dal mare verso le valli, ma un pacato richiamo ad accogliere e a raccogliere, a rinfrancare la speranza»

Non poteva mancare una nutriente colazione con i prodotti tipici…ci ha pensato la mamma di un nostro alunno a rifocillare tutta la comitiva.

 

Qualcuno ha immortalato pure me…mentre vi scrivevo….

E’ stata una giornata memorabile. Ripercorrendo le vie del sacro ho ritrovato angoli unici di spiritualità, mi sono raccolto in preghiera nel silenzio e ho partecipato a uno dei più importanti momenti della vita, la fase educativa dei nostri giovani. Vi do appuntamento alla prossima e vi abbraccio con la stima di sempre.

Angelo Risi

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ELEZIONI POLITICHE 2018 – C’E’ UN’ITALIA DA RIFARE.

E’ una Italia divisa in due, e forse tre, la fotografia che si è profilata all’indomani delle elezioni politiche del quattro marzo.

Una immagine che neppure il più navigato dei politici si sarebbe mai sognata, eppure i sentori dei malcontenti e della sfiducia nei partiti si avvertivano da lunghissimo tempo. E’ stato un grido di liberazione del popolo del sud, che ha riposto fiducia nel “movimento cinque stelle”, così come il popolo del settentrione nella “Lega”- nata dall’unione di movimenti popolari.

I motivi che hanno spinto gli elettori a dare fiducia a tali schieramenti anti-sistema anzinchè ai partiti tradizionali sono facilmente comprensibili, in quando già da tempo il popolo italiano da nord a sud, isole comprese, manifestava dissenso verso la partitocrazia per i motivi che tutti noi conosciamo: interessi privati, corruzione e quant’altro. Considerando che mai l’Italia è stata unita da un progetto politico comune, tant’è che ancora oggi è grande il divario tra settentrione e meridione, tra periferie e città, tra ricchi e poveri; facile è stato rivendicare l’orgoglio del proprio voto e il senso di appartenenza al territorio. Ognuno si è sentito libero e convinto di esprimere un forte dissenso verso i “professionisti” della politica che per raggiungerei i loro fini giustificano i mezzi. Troppo ci sarebbe da scrivere a livello nazionale, mi limito a  quanto è successo vicino a me, quale esempio di mal costume ed eclatante sconfitta politica. Una singolare petizione di quattrocentosettanta amministratori cilentani per sponsorizzare la candidatura in Parlamento di Franco Alfieri, firmata anche da quei personaggi che affollavano la sala conferenze dell’hotel Ramada nel novembre duemilasedici, allorquando il governatore De Luca dettò le norme di comportamento a favore del sì al referendum costituzionale, invitando tutti a emulare lo stile clientelare-politico del buon Alfieri. Nacque il “patto delle fritture di pesce”.  Un patto che non bastò a Renzi per far approvare la sua riforma e nemmeno è bastato ad Alfieri per entrare in Parlamento. Il popolo non solo non dimentica ma non vuole essere comprato ne tantomeno venduto per una “frittura di pesce”.

Se è vero che la frase, estrapolata da un discorso, fu strumentalizzata; è anche vero che un Governatore di Regione non avrebbe dovuto teatralizzare una questione delicata come una consultazione referendaria elargendo “doni” e “titoli” che ledono la dignità dell’uomo e dell’elettore. Non mi dilungo sui comportamenti e le esternazioni del Governatore in merito all’inchiesta di Fanpage. Troppo ci sarebbe da dire. Vero è che anche quelli hanno contribuito alla batosta elettorale del PD e alla sconfitta a Salerno del figlio Piero, battuto dal candidato del Movimento cinque stelle: Nicola Provenza. Piero De Luca e Paolo Siani, candidati del Partito democratico in Campania entrambi sconfitti nei rispettivi collegi uninominali di Salerno e Napoli-San Carlo all’Arena, entreranno per la prima volta alla Camera dei Deputati grazie al listino bloccato, intanto Caserta resterà senza deputati. Tanti i ripescati su tutto il territorio nazionale, ex ministri, nomi noti e consumati che avendo perso nei collegi uninominali entrano dalla “porta” del proporzionale. Una storia tutta italiana. Pazienza.

Ma ritorniamo a noi, in Cilento, nella circoscrizione Campania due, Franco Alfieri (35mila voti) è stato superato dalla candidata del Movimento cinque stelle Alessia D’Alessandro (42mila voti) che su Facebook tramite un video messaggio ha ringraziato tutti e ha dichiarato: «Per me l’esito registrato  è un esito di pieno successo, perché siamo finalmente riusciti a liberarci dall’uomo che per tanti anni ha deturpato questi territori, di un uomo che è conosciuto per la politica clientelare e che non ha seguito gli interessi della collettività ma solo quello di certi ceti interessati». 

https://www.facebook.com/AlessiaDAlessandro.MoVimento5Stelle/

 

Leccarsi le ferite oggi non serve a niente. Servono piuttosto riflessioni da parte di chi amministra le comunità ed è convinto di “gestire” a suo piacimento sia la cosa pubblica che le volontà politiche dei cittadini. C’è da dire anche che a nulla è servita una nuova legge elettorale se non ad ingarbugliare la situazione politica già tanto compromessa e a salvare qualche protetto o figlio di papà. Ha generato dissenso finanche il fatto che i candidati “calati” dall’alto non sempre sono l’espressione di un territorio. Una politica, quella dei partiti, e comportamenti, quelli dei soggetti interessati, che negli anni hanno assunto sempre di più le connotazioni e le caratteristiche di una vera casta.

Come poteva il sud e il popolo non ribellarsi a tale sistema partitocratico?

Ha fin troppo resistito …sopportando ogni tipo di “delitto” verso la democrazia e di “sopruso” verso la civiltà ed ha reagito con l’unico modo che gli era possibile: recandosi alle urne e votando il movimento cinque stelle. Una forza giovane e nuova.

Il sud ha votato senza pensare agli scenari politici che si profileranno ma con la consapevolezza di lasciarsi dietro i vecchi partiti composti da vassalli, valvassori e valvassini.

Dopo centocinquant’anni e più riecheggiano ancora le parole di Massimo D’Azeglio:«Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani».

Tanto sangue e tante vite sono state sacrificate per avere un’Italia e un popolo italiano unito, eppure fatta l’Italia forse bisogna ancora fare gli italiani.

Sono convinto che dove non si è riusciti il quattro marzo si provvederà in futuro. Viva il sud. Viva l’Italia di domani.

Vi abbraccio con la stima di sempre!

Angelo Risi

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